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di Enrico 
Castelli Gattinara 
Docente di 
Epistemologia della Storia, Sapienza Università di Roma, Circolo Bateson. 
 Arte e scienza: di solito è un dialogo fra sordi. L’artista usa a modo suo pezzi 
di scienza che lo affascinano o gli sono congeniali, gli scienziati si occupano 
di arte – quando se ne occupano – a tempo perso e certamente fuori del loro 
ambito specifico di lavoro. Kuhn avrebbe chiamato incommensurabili i rispettivi 
sistemi di pensiero e di riferimento paradigmatico, e certamente le loro 
rispettive “pratiche” di lavoro. 
Cosa c’è di più diverso del lavoro dell’artista (creativo) e dello scienziato 
(sistematico e metodico)? Lo scienziato non può usare le cose come gli pare, ma 
deve obbedire a dei protocolli procedurali molto rigidi: ha pochissimo spazio 
per la creatività, la fantasia e persino per la curiosità. Ha pochi soldi da 
buttare via, o da inutilizzare in un’opera d’arte (come per es. ha non-fatto 
Paolo Monti con Denaro contante del 1991: parallelepipedo di banconote con 
guardie armate in un’esposizione… mai realizzato). Il suo lavoro – in 
laboratorio, per esempio – è spesso ripetitivo, iperorganizzato e rigido. 
L’artista invece può fare come gli pare, può trarre ispirazione da qualsiasi 
cosa, può permettersi di scegliere il metodo e gli oggetti che più lo 
sollecitano (lo scienziato non ha questa libertà di scelta: la sua facoltà di 
scegliere si esprime solo agli inizi, quando comincia una ricerca, poi le cose 
devono seguire vie già preordinate e gli sviluppi devono essere prevedibili). 
Può certamente lavorare con rigore, può usare metodo scientifico, può studiare 
matematica e elaborare strutture frattali, come Paolo Monti ha fatto e sta 
facendo… ma il suo lavoro non è vincolato in partenza, e i suoi vincoli devono 
sempre poter essere spezzati e spiazzati (qui potremmo dire “spozzati”). 
La differenza fra l’arte e la scienza è proprio questa: la libertà di contro 
alla legge. 
Che bello, sarebbe, se fosse tutto così chiaro e netto: senza legge non si vive, 
e nessuno di noi lo vorrebbe (infatti ci arrabbiamo se qualcuno ci sfila il 
portafogli in autobus, o se il commerciante non ci dà il resto giusto, se 
qualcuno ci passa avanti in una fila, ecc.).  
La legge dà certezza e sicurezza. Permette l’accordo. 
Eppure nessuno di noi rinuncerebbe mai alla libertà, condizione essenziale per 
vivere felici. A questo proposito i filosofi già dal XVII secolo discutevano sui 
limiti fra la libertà individuale e la legge sociale, e sono nate quelle 
bellissime frasi che recitano “la mia libertà finisce dove comincia la tua”, che 
cercano cioè un’armonia fra il senso di libertà ritenuto innato nell’essere 
umano (il che invece è da dimostrare, ed è fortemente connotato culturalmente) e 
la necessità della legge, perché l’accordo di tutti con tutti non si trasformi 
nella guerra di tutti contro tutti (Hobbes). 
Ma qui siamo già fuori dall’arte e dalla scienza: come vedete, il discorso porta 
verso altri orizzonti, crea nuove connessioni, nuovi sviluppi, nuovi problemi. 
Diventa politico ed ecologio, etico e morale… Non è possibile confrontarsi con 
l’opera di Monti senza aprirsi a questo infinito delle connessioni possibili, 
poiché le cose che siamo e che lavoriamo non sono mai del tutto isolate dal 
resto: tutto sta nel trovare-tracciare i percorsi giusti per passare da un piano 
all’altro del discorso e del fare, del pensare e del vivere. 
Se il rapporto fra arte e scienza si limita a una coabitazione, a un 
compiacimento reciproco (gli scienziati ammirano l’arte, la ospitano, magari a 
tempo perso la studiano o la praticano; gli artisti invece la usano, la 
prendono, la buttano via ma non si sottomettono alla sua disciplina), il 
problema arte/scienza resta banale e già risolto da sempre (o quasi): Leonardo, 
Boccioni, Mondrian, Kandinski, Sergio Lombardo, ecc. Resta la differenza, ma non 
la compenetrazione e l’organizzazione reciproca. 
E invece già da Galielo sappiamo che le cose stanno in modo assai diverso, 
perché arte e scienza vanno di pari passo non come due entità separate, ma come 
una stessa entità, e necessitano l’una dell’altra: cosa sarebbe la scienza senza 
creatività? E cosa l’arte senza metodo? Ma le cose sono assai più raffinate, 
oggi. Perché non è questo ancora il problema. Il problema è quello di suscitare 
inquietudini e interrogativi. E questo lo fanno sia l’arte che la scienza (in 
modi diversi, ovviamente): rompere le regole per trovarne altre, infrangere la 
legge in nome della legge (gli scienziati sono in fondo persone per bene, che 
provano un grande gusto nel fare proprio questo, e perciò sono stati talvolta 
malvisti dal Potere), limitare la libertà in nome della libertà. Usare il denaro 
per provocare il denaro e mostrarne non l’aspetto di feticcio, ma l’aspetto di 
merce. Il suo corpo, la sua consistenza. Senza per questo eliminare o escludere 
il suo aspetto feticcio. Il lavoro di Monti sul denaro è un lavoro scientifico 
assai più che artistico. 
Occorre guardare alle cose con maggiore attenzione. Come al solito. Come per 
tutto.  
E superare le apparenze.  
Da quando l’arte è arte, cerca di superare le apparenze e la superficie, ma lo 
fa senza per questo eliminarla o dimenticarla (come invece ha fatto spesso la 
filosofia). Parafrasando Nietzsche, si può dire che l’arte è superficiale per 
profondità. Pensate a Caravaggio, alla sua rivoluzione dell’uso della luce e 
all’irruzione della corporeità quotidiana nello spazio sacro della 
rappresentazione. Il piede sporco di uno dei carnefici di san Pietro, i tratti 
da popolana di una madonna, le unghie sporche, il ghigno, l’ironia, l’assurdità 
che si ritrovano anche nei fiamminghi sono i caratteri di una realtà banale, 
normale, apparente, che invece di fare da schermo ci deve introdurre verso ciò 
che è più difficile da pensare e da capire. E’ l’idea dell’incredibile che è 
dentro il credibile. Non il credibile che diventa incredibile, ma l’incredibile 
del credibile. L’ironia di Arcimboldo insegna questo. Patate, carciofi, carote, 
pere, mele, uva… dopotutto, la pop art ha inventato ben poco, verrebbe quasi da 
dire: la superficie del mondo, la sua materia, è ciò che resta più misterioso ai 
nostri occhi (anche agli occhi della mente). Questo il messaggio dell’arte. Non 
“spingersi oltre”, ma imparare a stare meglio dentro ciò che per questa diversa 
prospettiva si rivela assai più ricco di quanto si pensava. 
Ecco allora che si può aprire una nuova strada per affrontare sempre gli stessi 
problemi (quelli di capire e comprendere ciò che siamo e ciò in cui e con cui 
siamo, il mondo che ci circonda e di cui siamo fatti): l’artista Paolo Monti che 
si fissa su quello che usiamo forse più di ogni altra cosa nella nostra vita di 
tutti i giorni, il denaro, e vuole ricomprenderne la materialità. Una 
materialità che per definizione si è persa nell’esclusività del valore nominale. 
Il valore del denaro è una cosa talmente banale che neppure ci sorprende, anche 
se fluttua in maniera così instabile che è una meraviglia della complessità. Ma 
tutti pensano al denaro come a un valore preciso di scambio definito da norme 
monetarie ed economiche nazionali e internazionali di cui pochi conoscono i 
meccanismi ma di cui tutti accettano volenti o nolenti i risultati. Ed è un 
materiale che circola, viaggia: freneticamente. 
Monti ha deciso di prendere il denaro sul serio, in particolare nella sua forma 
materiale più materialmente volatile, la carta moneta. E per questo ha scelto il 
denaro per eccellenza della modernità, il dollaro, il biglietto da un dollaro. E 
su di lui ha operato dissacrandone il valore nominale, studiandone la 
composizione fisico-chimica, provocandone le reazioni e alla fine – è l’opera in 
corso che è TazebAu – sostituendo il valore proprio (one dollar) con un insieme 
di valori altri che vi si intrecciano sopra (firme, tempo, percorso, altre 
circolazioni). 
La firma: ecco una connessione inaudita e incredibile. Personalizzare 
l’impersonalizzabile. Il denaro non appartiene a nessuno, perché rappresenta lo 
scambio perfettamente equivalente: tutti i biglietti di banca dello stesso 
valore nominale si equivalgono, a milioni. La firma è invece il marchio 
dell’individuo persona, il sigillo, the great seal, insostituibile e non 
falsificabile (per legge!). Ma Monti non ha voluto fare quello che tanto diverte 
gli adolescenti di 14 o 15 anni: marcare un biglietto da un dollaro con un 
piccolo segno, una frase d’amore, un insulto, ecc. che poi circoleranno chissà 
dove, e magari torneranno per un momento fra le mani di chi ha scritto (è quello 
che in fondo si spera). Monti ha semicancellato il sigillo ufficiale, o lo ha 
alterato, per metterlo in tensione con la firma in un viaggio che rappresenta la 
circolazione di altre cose, e soprattutto di altri valori. Perché in questo suo 
lavoro – ed è questa la sua inaudita intelligenza e la sua scientificità – il 
denaro non viene negato in quanto denaro, in quanto simbolo che ha senso in 
quanto portatore di un determinato valore rappresentato. Non si tratta di 
eliminare o distruggere il denaro, ma di affidargli altri valori… e magari 
continuare a farlo circolare, viaggiare. 
Far entrare il mondo nel dollaro, e non più fare come si è sempre fatto, vale a 
dire far entrare il dollaro nel mondo. La globalizzazione la viviamo tutti i 
giorni. Paolo Monti la fa al rovescio (ma non al contrario): non priva il 
dollaro del suo valore (perché quello resta pur sempre un dollaro), ma ne mostra 
tutti i valori aggiuntivi virtuali che lo possono sottrarre – e di fatto lo 
sottraggono – all’esclusività del suo destino monetario. 
Mi chiedo: cosa c’entra tutto questo con un laboratorio di ingegneria 
aerospaziale, che di dollari ne vorrebbe molti per portare avanti le proprie 
ricerche, ma li vorrebbe “veri” e pieni di valore monetario? Che tipo di 
connessione si è stabilita con Paolo Monti? 
Per un verso è facile capire: l’artista viene qui per rompere un po’ le scatole, 
per provocare, per continuare il suo lavoro di cercare nelle superfici del mondo 
ciò che queste superfici rivelano di inesauribile e di incredibile. L’artista è 
sempre affascinato dalla scienza, e la usa. Chiama un pezzo (una connessione) 
della sua opera “Il satellite nel pozzo”, sfrutta il lavoro degli ingegneri per 
le sue proiezioni, li spinge a lavorare con lui e per lui, sfrutta i loro spazi… 
e si usa nel tempo (nel senso che usa e si lascia usare dal tempo che passa, 
modificando continuamente la sua opera, come il tempo sempre già fa 
inevitabilmente con tutto). 
Per un altro verso invece le cose sono assai più complicate: perché gli 
ingegneri hanno accettato quest’opera? Cosa vogliono dall’artista? In che modo 
lo stanno usando e come ne stanno sfruttando le capacità? In che senso e in che 
misura hanno compreso l’affinità fra il loro e il lavoro dell’artista? Cosa ci 
stanno dicendo, senza dircelo apertamente? 
   
Guardiamo allora all’oggetto principale dell’evento, il satellite: il pozzo sta 
là da secoli a mostrare, senza dirlo a nessuno ma facendolo vedere a tutti, che 
la superficie è sempre bucata e dotata di profondità da indagare, e il satellite 
si specchia in questa profondità quasi per dire (questo il discorso tacito degli 
ingegneri, non dell’artista) che un satellite non è solo un corpo morto, ma va 
compreso nella sua materialità. Una materialità che fa giocare in s?materie 
molto diverse fra loro, se ammettiamo che siano materia sia l’alluminio che il 
tracciato di una curva sullo schermo di un computer. E infatti questo satellite, 
unisat, che gira velocissimo in meno di due ore intorno al mondo, serve a 
misurare se stesso, la materia (o meglio le materie diverse) di cui è fatto. Un 
satellite inutile, insomma. Un giocattolo. Di nessuna utilità quotidiana. Non è 
di quelli che servono per le nostre telecomunicazioni, per i gps, per i 
telescopi, per le rilevazioni spaziali, per google, per i militari, ecc. Tutte 
queste funzioni vengono operativamente inutilizzate. Il che significa 
soprattutto (perché non c’è niente di male nell’inutilità, visto che è qualcosa 
di sempre parziale e circostanziato, e quindi l’inutile è tale sempre e solo 
rispetto a certi scopi, a non ad altri) che inutilizza il suo valore commerciale 
immediatamente spendibile e monetizzabile. Serve infatti agli ingegneri per due 
cose che sono terra terra, nel vero senso della parola. Servono a permettere 
agli studenti, sulla Terra, qui ed ora, di costruire un satellite vero e 
proprio, che va veramente nello spazio, e serve soprattutto – ecco dove sta il 
trucco che accomuna questi ingegneri all’artista – a capire come reagiscono 
nello spazio i materiali terrestri con cui è costruito e funziona. Materiali 
terrestri, poveri, di tutti i giorni (le batterie, per esempio, o il tessuto per 
gli aquiloni), del tutto superficiali. Questi ingegneri, che in tal senso sono 
anche scienziati ma non per questo rinunciano al loro essere ingegneri 
(materiali, appunto), hanno in un certo senso “slavato” il satellite da tutti i 
suoi usi più prevedibili (e soggetti a lauti finanzamenti). A me pare: un po’ 
come i dollari di Monti. Questo satellite non serve a niente, se non a se 
stesso; è un satellite introverso e non estroverso, narcisistico. E per questo 
non può non affascinare chi non si limita a considerarlo semplicemente nella sua 
superficialità. Certo, se le misurazioni sono interessanti e i materiali 
reagiscono bene nello spazio, le ricadute economiche possono essere adottate 
dalle industrie, qualcuno può farci bei profitti, qualcun altro può ricavarci 
una bella pubblicazione sulle riviste più importanti del settore, ecc. Ma al 
satellite non gliene importa nulla, di tutto questo. Il suo valore è un non 
valore, un valore autoreferenziale: per questo “inutile”.  
Ho suggerito che è questo un po’ anche il lavoro che P. Monti ha fatto sul 
denaro. L’ha slavato. Ne ha grattato via tutta la nobile monetarietà simbolica. 
Addirittura ne ha alterato il sigillo simbolico per eccellenza, l’aquila, che è 
sugli stemmi delle divise spaziali degli astronauti, oltre che sui dollari e sui 
timbri dei documenti ufficiali. 
Ma c’è dell’altro: il satellite gira intorno al mondo – il suo riflesso sonoro 
nel pozzo lo testimonia – e i suoi “proprietari” lo tengono costantemente 
d’occhio in questa sua circolazione, come le banche tengono d’occhio la 
circolazione del denaro. Ma un satellite inutile che circola in questo modo 
assomiglia al viaggio dei dollari resi inutili dall’artista: portano entrambi 
con sè una materialità che infrange e dissolve – slava – l’investimento 
valoriale che li origina, circolano per altre strade, che pur essendo le stesse 
di fatto non lo sono, e mostrano in questo modo che nella superficie c’è 
un’alterità che non è facile cogliere, ma che occorre farlo se vogliamo imparare 
a vedere le cose altrimenti. Caricare un satellite spaziale con sei semplici 
pile torcia che si comprano dal tabaccaio significa caricarlo di una fonte di 
energia povera e ricca di significato, analogamente alle banconote grattate e 
trattate che circolano fra l’Italia e la Cina e che vengono caricate di firme e 
sigilli, a testimoniare che l’umano non muore necessariamente di fronte 
all’ineluttabile della tecnica e del mercato globale. 
Discorsi pericolosi, che è difficile fare, ma che le cose trattate e slavate in 
questo modo sono capaci di comunicare. Provocare le cose a reagire, e insegnare 
alle cose e a noi tutti – agli studenti in primo luogo, ma qui lo diventiamo nel 
momento in cui, come sempre, ci disponiamo a imparare qualcosa che non sappiamo, 
e ci mettiamo alla ricerca, aprendoci allo stupore e allo studio, che non a caso 
hanno una stessa radice fonetica - insegnare che il mondo è pieno di pozzi in 
cui si specchiano i satelliti, ossia che è pieno di strade e percorsi inattesi 
che ci possono portare oltre le apparenze e far risuonare fra loro cose anche 
molto lontane fra loro. Ecco perché qui, oggi, arte e scienza hanno potuto 
incontrarsi e parlarsi in maniera originale. 
Roma, dicembre 2007 
Enrico Castelli Gattinara - Docente di Epistemologia della Storia, 
Sapienza Università di Roma, Circolo Bateson. 
  
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